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Lo abbiamo detto più volte, siamo nell’economia dell’esperienza, una economia all’interno della quale i brand possono farsi riconoscere, ricordare e monetizzare solo se riescono a coinvolgere e ingaggiare le persone. Un’economia dove nelle strategie di marketing strumenti e mezzi perdono di valore se non accompagnati dalla giusta comunicazione, dal contenuto che dev’essere pensato per gli utenti, per le persone che ne fruiranno, per i loro bisogni e per le loro storie.
Gli esempi che stiamo per raccontarvi sembrano quasi voler dire a brand e aziende di abbandonare formalismi e tecnicismi (anche se poi non è davvero così) per parlare al proprio pubblico in modo più diretto e vicino. Ciò che hanno in comune le storie che abbiamo selezionato è che sono così coinvolgenti, nel bene e nel “male”, da portare gli utenti a condividerle senza alcun tipo di pressione da parte dei brand perché a sentirsi protagonisti sono gli utenti stessi.
Raccontare una storia all’interno della quale una persona che la legge o vede possa ritrovarsi è forse la regola principale dell’engagement. Ci sono però settori dove l’engagement è davvero molto complesso, pensiamo a quello delle onoranze funebri: come si fa a coinvolgere una persona? Per quale motivo dovrebbe sentirsi vicina ad un brand che ha a che fare con la morte?
Eppure, se ci sforziamo di lasciare da parte i pregiudizi e ci focalizziamo sul fatto che il brand positioning oggi si costruisce trasmettendo sensazioni, lasciando un ricordo, stimolando un pensiero o un’emozione, ecco che allora questo approccio vale anche per brand che solitamente entrano in contatto con i clienti in spiacevoli momenti della loro vita.
Eccellente esempio che va in questa direzione è quello di Taffo – Funeral Services che ha saputo sfruttare i canali social, Facebook in particolare, per il riconoscimento del proprio brand alternando campagne corporate incentrate sull’ironia (per esempio presentando la collezione autunno-inverno della nuova linea di bare) a campagne dal risvolto sociale e politico (per esempio a favore della lotta contro l’abbandono degli animali, a sostegno delle famiglie “arcobaleno” o a favore della prevenzione degli incidenti stradali mortali).
A volte irriverenti, a volte polemiche, a volte in aperto contrasto politico-sociale, le campagne su Facebook hanno avuto in poco tempo il miglior effetto che un brand possa desiderare: essere ricordato e attrarre consensi (il pubblico che acclama l’azienda è superiore a quello che non ama il suo stile: la pagina Facebook di Taffo oggi contano quasi 110mila fan).
Credits: Taffo
Ci sono poi aziende che, seppur abbracciando le nuove potenzialità del digital marketing, non abbandonano le campagne pubblicitarie tradizionali, in particolare quelle televisive. Scelta che non deve affatto far pensare a qualcosa di errato o coraggioso “al contrario” (nel senso di attaccamento al mondo tradizionale) perché quando ad essere innovativo è il messaggio e il modo di raccontarlo, allora il mezzo con il quale si decide di proporlo può anche perdere di importanza (anche se qui è doverosa una puntualizzazione: molto spesso è dai canali social, YouTube in particolare, che parte la “viralizzazione” di campagne pubblicitarie televisive).
Un caso di spot televisivo molto semplice quanto potente per il riconoscimento del brand è quello di diversi anni fa ormai (era il 2011) di Vivident Xylit, dal titolo “whatever you eat”. Lo spot puntava molto sul brano musicale (cover del celebre brano “Whatever you want” della rock band inglese degli Status Quo) e sulla scelta dei protagonisti, tutta “gente comune” reclutata quasi a caso a San Diego, città dov’è stato girato lo spot.
Due scelte che hanno portato gli spettatori a vivere una sorta di simbiosi mediatica con i protagonisti dello spot, cantando la canzone (dello spot, non quella originale) e facendosi persino ingolosire dalle varie prelibatezze culinarie che in pochi secondi apparivano allo schermo, riconoscendosi nella propria vita personale esattamente come i protagonisti del video. In questo caso, dunque, attori non professionisti, brano musicale e scene di vita reale quotidiana hanno consentito ai telespettatori di riconoscersi in quella “storia comune”.
Un altro esempio di campagna marketing televisiva efficace dal punto di vista del posizionamento del brand, anche se attraverso un hype mediatico “parallelo” dovuto alle polemiche sollevate dal pubblico dopo la messa in onda dei primi spot, riguarda Buondì Motta.
“Buondì, colazione golosa o leggera” è il titolo della campagna del 2017 che giocava sulla parodia della famiglia utilizzando un linguaggio paradossalmente e forzatamente marchettaro contrastando con le tradizionali campagne televisive dove si tende a presentare la famiglia perfetta e giocando sull’accadimento di eventi surreali (come un asteroide che colpisce la mamma che ha appena detto a sua figlia che una merendina che coniuga bontà/golosità e leggerezza non esiste).
Sui social network il dibattito è stato acceso per diverse settimane tra chi riteneva eccessiva la scelta della morte dei genitori della bambina protagonista e chi invece esaltava l’ironia e l’originalità di uno spot televisivo che, di sicuro, fino a quel momento non si era mai visto.
L’efficacia della comunicazione del brand si vide anche sui social network dove il team media della Buondì sfruttò la stessa ironia per replicare alle polemiche lanciando messaggi come: “possa colpirci un asteroide se una mamma è stata maltrattata o ferita per realizzare questa pubblicità”; “se non fossimo stati chiari, ci teniamo a precisare che non pubblicizziamo asteroidi”.
L’appartenenza a una “storia comune” è ciò su cui ha puntato anche Original Marines con la campagna del 2016 #MomentiOriginal per far sentire il brand vicino alle famiglie, il target cui si rivolge.
Un video semplice, dinamico e allegro che consente a tutti di vivere in prima persona gli attimi di una giornata “comune”, sia dalla prospettiva dei bambini sia da quello delle mamme; momenti originali e spontanei nei quali in realtà tutti ci ritroviamo abbandonando per un attimo il nostro status di telespettatore per sentirci protagonisti di una storia originale ma comune, vicina a noi, così come lo è il brand che in questo spot ricorda di essere vicino alle famiglie in qualsiasi momento della giornata.
Come anticipato il senso di appartenenza è ciò che più avvicina una persona ad un brand, al punto che alcune realtà decidono addirittura di passare in secondo piano lasciando che l’experience dell’utente non venga “disturbata” dal marchio.
Un chiaro esempio a testimonianza di quanto premesso è il caso Dove che nel 2013, in occasione della festa del papà, ha messo in campo una campagna mediatica incentrata sul concetto della “cura” (nell’accezione del “prendersi cura”) puntando sulla proposta di mini film (nei quali il prodotto non compare mai, non viene mai citato e tanto meno il brand) dove protagoniste sono le famiglie nelle quali i padri sono spesso lontani per motivi di lavoro.
La campagna in realtà si presentava come una vera e propria missione, anche nel nome (Dove Men+Care “Mission: Care”), perché di fatto l’azienda, con la scusa dello spot pubblicitario, ha consentito ad alcuni papà – ignari fino all’ultimo secondo – di abbracciare moglie e figli nel giorno della loro festa.
Così come i papà si prendono cura delle loro famiglie anche da lontano, altrettanto fa Dove con i propri clienti. Non erano necessari slogan e claim pubblicitari. Il messaggio è arrivato forte e chiaro anche senza parlare del brand.
Chiudiamo questa nostra carrellata di esempi con una delle aziende che da oltre trent’anni lavora al posizionamento del brand raccontando la storia di altri protagonisti. Parliamo di Nike.
Sono passati trent’anni dal lancio dell’ormai notissimo slogan Just Do It e per festeggiare Nike lancia una campagna intitolata Dream Crazy che sta animando da settimane il dibattito pubblico. Il motivo è politico e sociale.
Nike ha scelto come voce narrante del nuovo spot e volto della campagna mediatica Colin Kaepernick, ex quarterback dei San Francisco 49ers, squadra di football americano della National Football League (NFL), noto alle cronache di tutto il mondo per essersi inginocchiato durante l’inno nazionale americano che precede l’inizio delle partite di football. Un segno di protesta, quello di Colin, contro la discriminazione verso le minoranze etniche che caratterizza da tempo gli Stati Uniti (in un momento socio-politico molto teso caratterizzato dall’inasprimento delle politiche sull’immigrazione voluto dal Presidente Donald Trump).
Fu proprio Donald Trump ad acuire il dibattito globale intervenendo a gamba tesa sulla NFL invitandola a lasciare in panchina tutti quei giocatori che non avessero rispettato l’inno. Colin Kaepernic, da quel gesto (era il 26 agosto 2016, ne seguirono altri nei giorni successivi anche da parte di altri atleti), ottenne emarginazione e fu persino cacciato dalla NFL.
A due anni di distanza Nike punta su Colin come testimonial e la scelta, come ci si poteva immaginare, ha scatenato animi e dibattiti che nelle ultime settimane si sono altalenati tra sport, politica, cultura, società ed economia.
Ne fa un bel quadro Davide Basile, Marketing & Communication Manager di Original Marines, in un post su LinkedIn Pulse scrivendo:
“In questi giorni alcuni (tra cui il sottoscritto) stanno applaudendo Nike, mentre altri stanno bruciando le sue scarpe in segno di protesta. Altri ancora sono titubanti sull’uso dell’attivismo di Kaepernick come strumento di marketing e parlano di #FAIL. In seguito all’annuncio che Nike stava usando Kaepernick come testimonial, il prezzo delle azioni della società è sceso del 3% nelle prime negoziazioni successive al Labor Day. Numerosi gruppi hanno chiesto il boicottaggio della società, con tanto di video pubblicati sui social media di persone che bruciano rabbiosamente i propri prodotti Nike. Il presidente Trump ha twittato che Nike è stata “uccisa con rabbia e boicottaggio”, tuttavia a mio avviso la reazione del mercato alle notizie è stata significativa, ma avrà vita breve”.
Secondo Davide Basile a dimostrare che la polemica avrà vita breve sono i numeri:
“[…] andando a fondo nell’analisi dell’andamento del titolo di Nike si evince che negli ultimi cinque anni questo ha registrato una incredibile crescita del 167% e in ciascuno degli ultimi quattro anni ha subito un calo tra metà agosto e inizio ottobre (dovuto probabilmente al post “Back to School” e quindi, abbastanza fisiologico). La notizia è che, dai primi dati, pare che il calo del 2018, che viene attribuito a Kaepernick, sia in realtà meno pronunciato rispetto ai tre anni precedenti. Chi si è quindi affrettato a parlare di “tonfo in Borsa dopo il boicottaggio social” o di “fallimento della campagna Nike certificato dagli investitori”, avrebbe forse dovuto attendere un po’ di più o almeno documentarsi un po’ più approfonditamente”.
Secondo Interbrand, Nike è il diciottesimo marchio più importante del mondo, dietro a giganti della tecnologia come Facebook e Apple, ma davanti a qualsiasi altra società coinvolta nella moda o nell’abbigliamento al dettaglio. In più, i dati di Edison Trends dicono che la campagna lanciata il 3 settembre ha portato un incremento delle vendite del 31% da domenica 2 a martedì 4 settembre. I numeri non sembrano quindi dire che si tratti di Fail ma semplicemente di una scelta molto coraggiosa.
Il magazine Fortune ha recentemente identificato Nike come una delle 50 aziende che hanno un impatto estremamente positivo all’interno della società. Come avrebbe potuto, dunque, una società che da anni spinge le persona a seguire i propri sogni con passione e sacrificio, andando contro e superando qualsiasi genere di ostacolo, cedere a giochi politici ed economici?
Nello spot lo stesso Colin racconta una storia di passione e sacrifici suggerendo allo spettatore di andare oltre qualsiasi pregiudizio, discriminazione razziale o religiosa, orientamento sessuale, handicap o follia: “Don’t ask if your dreams are crazy. Ask if they’re crazy enough”.
Messaggi che Nike amplifica con un altro spot, quello dove ad essere protagonista è l’atleta sudafricana Caster Semenya, plurimedagliata olimpica e purtroppo nota per infelici storie di cronaca (è stata più volte messa in dubbio la sua sessualità ed è stata sottoposta a test sui livelli del testosterone per confrontarli con quelli medi presenti nelle donne, oltre a subire vari attacchi ed umiliazioni pubbliche). Nike ha deciso che la sua storia dovesse essere ascoltata da tutti: “sono nata per fare questo”, dice lei nello spot. “When you’re born to do it, just do it”, recita il claim finale.
Ciò che ci insegna Nike è che in una società come quella odierna dove le persone diventano brand e media, e dove brand e media calano il velo per farsi vedere come persone, l’unica strategia davvero efficace è quella di rimanere fedeli a se stessi. Colin Kaepernick e Caster Semenya lo hanno fatto, Nike lo sta facendo da anni dimostrando che l’headline scelta per la nuova campagna Dream Crazy è tutt’altro che un claim pubblicitario: “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”.