5 falsi miti sul Growth Hacking spiegati da Luca Barboni

5 falsi miti sul Growth Hacking spiegati da Luca Barboni

Pubblicato da IQUII il 05/10/2016 in Thinking

A partire dal 2014 sono stato uno dei primi a parlare al pubblico di Growth Hacking in Italia. Sono passati due anni e non smetto di vedere facce sorprese.
Eppure nei miei interventi comincia a capitarmi un nuovo tipo di reazione: la reazione “avevo letto qualcosa online ma avevo capito tutt’altro.”

growth hacking trends

Si può dire che il Growth Hacking stia arrivando anche da noi, veicolato soprattutto dal mondo startup e in particolare dalla sua culla la Silicon Valley, che ha sempre l’orecchio più teso degli altri verso le innovazioni.

Ma come ogni nuovo trend, porta con sé un’immagine fumosa e una serie di contenuti che mirano più ad acchiappare traffico che non ad approfondire realmente il concetto.
(Se avete già sentito parlare di Growth Hacking, sicuramente avrete letto articoli su articoli che riducono questo tema ad una lista di “growth hack” come se fosse un libro di ricette).

growth hacks on google

Quale parte è click-baiting e quale parte è reale? Cosa possiamo imparare veramente dal Growth Hacking per poterlo applicare in Italia, e quanto invece fa parte della favola della Silicon Valley?

Ho raccolto per voi 5 aspetti che vengono spesso accomunati al Growth Hacking, ma che in realtà non fanno altro che raccontare la punta dell’iceberg di una scienza ed arte molto diversa da ciò che si legge in alcuni titoli attira-click.

1. Il Growth Hacking è fatto da una serie di trucchetti

Airbnb. Dropbox. PayPal. Hotmail. Questi sono forse i primi nomi di aziende di successo che vengono sbandierati come case study di Growth Hacking in azione. E ce ne sarebbero molti altri ancora! Quello che spesso manca è però l’attenzione al processo piuttosto che al singolo “hack”.

Quando si legge che Dropbox ha sbloccato i suoi problemi di crescita della base utenti grazie all’incentivo “porta un amico e vinci 250mb gratis sul tuo account”, non va inteso che Growth Hacking sia ripetere la stessa cosa per la tua startup.
Il vero Growth Hack sono state le decine di meeting, di fogli di lavoro, di analisi sui dati svolte per settimane e settimane che hanno poi portato a partorire, testare e far scalare questa idea.

Ecco perché non si può fare Growth Hacking semplicemente replicando tutto ciò che si legge in articoli come “I 5 growth hack B2B che puoi applicare da domani”:

  • Le opportunità da cui dipendono questi “hack” sono date dal contesto di mercato, in continua evoluzione, perciò sono necessariamente temporanee;
  • A seconda del modello di business cambiano completamente i fattori di cui tenere conto per crescere;
  • Una volta che un “hack” viene scoperto e comunicato in un blogpost (come tutti questi case study) non è più un hack per definizione, ma diventa una best practice del settore che tutti quanti copiano.

2. È sempre il momento giusto per fare Growth Hacking

Se ti venisse offerto 1 milione di nuovi utenti gratis da domani, tu diresti di no?

Il Growth Hacking viene spesso dipinto così: una formula magica che una volta messa in atto permette a qualsiasi azienda di risolvere qualsiasi problema.
Ma la realtà è un po’ diversa.

Le aziende sono organismi complessi. E in quanto tali attraversano diverse fasi. Un’azienda appena nata e un’azienda con 200 dipendenti non funzionano allo stesso modo, non perseguono gli stessi obiettivi e non misurano il successo con le stesse metriche.

Immagina di finire su Techcrunch dopo aver lanciato per la prima volta la tua app. Questo significa migliaia di download all’istante, ma anche migliaia di persone che testano un’app che non ha mai incontrato i suoi veri utenti prima d’ora. Di solito questo significa anche migliaia di recensioni negative.

Product market fit

Senza aver validato il prodotto e il modello di business, ovvero aver raggiunto il product/market fit, non ci può essere spazio per la crescita.
Ovvero: focalizzarti sull’acquisizione di nuovi clienti nel momento sbagliato può uccidere la tua azienda.

3. Un growth hacker è uno sviluppatore

Il termine “hacking”, specialmente in Italia, spaventa un po’. In questo caso non ha nulla a che vedere con il cybercrime e la sicurezza informatica: in questo caso il Growth Hacking prende in prestito solamente il mindset dell’hacker, per poi metterlo al servizio del marketing.

Cosa c’è di unico nella mentalità dell’hacker?

Un hacker applica il pensiero diagonale per risolvere problemi in vie non convenzionali.
Un hacker studia in maniera approfondita le regole del sistema e poi, senza affidarsi a best practice, trova il modo migliore per ottenere quello che vuole.
Un hacker si concentra più sul raggiungere il risultato che non sul modo in cui raggiungerlo.

Questo si concretizza in due tratti imprescindibili del Growth Hacker.

Prima di tutto un hacker della crescita non investirebbe mai in marketing fine a se stesso come “aprire la pagina Facebook perché vabbè, bisogna starci.” oppure investire in brand awareness perché “dobbiamo far conoscere il prodotto” o ancora spingere sulle PR “purché se ne parli”.
Un growth hacker focalizzato sull’acquisire nuovi clienti sa bene che prima di fare brand awareness ci sono una serie di operazioni molto più dirette, molto più aggressive, molto più vicine ad avere un impatto sull’obiettivo di generare lead, e quelle avranno la priorità.

Il secondo tratto del Growth Hacker riguarda il rapporto con la tecnologia. Non è necessario che un Growth Hacker sia uno sviluppatore.
Lo ripeto: non è necessario che un Growth Hacker sia uno sviluppatore.
Il ruolo di un Growth Hacker in azienda è più simile a quello del product manager o del project manager. Però è anche vero che è difficile fare marketing su prodotti digitali e/o tecnologici senza avere la minima idea di come funzionino le suddette tecnologie.

Perciò il growth hacker deve avere una conoscenza base dei principali linguaggi del web, dei database ed essere familiare con le integrazioni di API, altrimenti non potrebbe mai avere una visione a 360° delle strategie di marketing e di prodotto che si potrebbero mettere in atto.
Viceversa queste skill lo rendono autonomo nel richiedere l’aiuto del reparto IT per ottimizzare landing page, lanciare piccoli test, progettare integrazioni. Questo mantiene il lavoro in team snello e veloce.

4. Il Growth Hacking è utile solo alle startup

Il Growth Hacking nasce nell’ambito delle Startup dove per definizione c’è scarsità di risorse. Scarsità di risorse ed estrema incertezza. Queste sono le due condizioni per cui avere a disposizione un modello di lavoro che massimizza i risultati e riduce gli sprechi fa molto comodo.

Tuttavia questo non significa che il Growth Hacking non possa essere applicato ad aziende strutturate. Facebook ad esempio è ben lontana dallo stadio di “startup” eppure non si accontenta dei miliardi di utenti e continua ad avere un reparto di crescita.

Una grande azienda strutturata può permettersi di fallire, una startup no.
Grazie alla sicurezza di un modello consolidato a volte si forma una cultura aziendale che paradossalmente tollera lo spreco. Promuove la stabilità a scapito della velocità. Il management a scapito dell’innovazione.
Esempi del genere sono impensabili per una startup che è appena arrivata sul mercato. A ben vedere la startup è talmente focalizzata sulla crescita che non ha tempo per occuparsi di altro.

Inoltre per fare spazio al modello del Growth Hacking l’organizzazione interna dell’azienda deve cambiare. E se questa rivoluzione dei reparti può avvenire in qualche settimana all’interno di un team di una startup, si tratta di un cambiamento molto più costoso e lento se deve realizzarsi all’interno di una grande azienda.

Eppure il Growth Hacking ha molto da offrire anche lì: se la startup ha l’esigenza di validare il proprio modello di acquisizione, un’impresa affermata ha il problema di far fronte a un mercato saturo, con canali di marketing affollati da competitor, con l’esigenza di essere responsivi nei confronti di questo mercato e pronti a innovarsi per rimanere competitivi.

5. Il Growth Hacking non richiede budget

Questo quinto mito deriva dal frequente accostamento fra il Growth Hacking e il viral marketing.

Il viral marketing ha l’effetto di scatenare un passaparola (online/offline) tale da trasformare i clienti in veri e propri venditori attivi del tuo prodotto. Quando questo succede, i costi di acquisizione di nuovi clienti si abbassano perché l’effetto virale moltiplica i nostri sforzi. Noi paghiamo per acquisire 1 cliente, e lui spargendo la voce ce ne porta altri 3.

Ma questo “risparmio” sul budget marketing è un fenomeno che si verifica solo DOPO che il loop virale è stato messo in moto, e avere successo in questo richiede non poche risorse!

product sales conversion pirate metrics funnel

Chiunque abbia messo in pratica il Growth Hacking in azienda vi dirà che richiede sia un investimento di tempo sia di budget.
Da un lato perché si basa su una sperimentazione continua e solo dopo N cicli di esperimenti e analisi si arriva a scoprire un cosiddetto “hack”. Dall’altro perché il Growth Hacker è una delle figure più richieste sul mercato in ambito tech e digital in questo momento e la competenza di livello su questo tema ha moltissimo valore sul mercato.

In breve il Growth Hacking è un modello organizzativo e un processo, il viral marketing una strategia (o canale) di marketing.

Questo significa che facendo Growth Hacking potresti fare uso del viral marketing per raggiungere l’obiettivo, ma le due cose non coincidono.

 

A questo punto avrai capito che il Growth Hacking ha un grandissimo potenziale trasformativo, sia per il modo di fare marketing sia il per il modo di gestire un’impresa in generale. Ma per ottenere risultati a così alto impatto non basta assumere un consulente e continuare a fare le cose come le hai sempre fatte. E non basta nemmeno copiare strategie di marketing che hanno funzionato 5 anni fa per altri business in settori diversi dal tuo.

Per poter funzionare, il Growth Hacking richiede processi specifici che possono concretizzarsi solo in presenza di una cultura aziendale specifica.

Ma come posso cominciare a fare growth hacking dentro la mia azienda?
Come capisco se sono nella fase giusta?
E cosa fa esattamente un growth hacker che invece non fa un digital marketer?

In collaborazione con IQUII ho realizzato un corso intensivo per rispondere proprio a queste domande. L’obiettivo del corso è permettere a marketer e imprenditori che non hanno tempo da perdere di “colmare il gap” tra il loro modo di fare le cose e il sistema portato dal Growth Hacking nel minor tempo possibile.

La seconda e ultima data del corso sarà questo weekend 8-9 Ottobre 2016 negli uffici di IQUII a Roma.

Hai tempo solo fino alle 18.00 di domani per prenotare uno dei 6 posti rimasti: scopri come funziona il corso e iscriviti ora!

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